Mancate risposte del governo. Bocche cucite per dignità, sfiducia e paura di perdere commesse dei grandi marchi. Macchinari fermi, c’è chi ha già chiuso e ha perso tutto.
Tra i laboratori artigianali della filiera della moda toscana, eccellenza del Belpaese, sono diversi i silenzi che fanno rumore. La ministra Marina Elvira Calderone aveva promesso all’inizio di marzo una proroga degli ammortizzatori sociali scaduti a fine gennaio. C’è urgenza, ma da Roma sembrano non essersene accorti.
Calderone non pervenuta
Da due mesi e mezzo un aiuto ad hoc del governo non c’è per le aziende del comparto moda con meno di 15 dipendenti: non possono beneficiarne lavoratrici e lavoratori. Lo aveva previsto il decreto legge 160, l’autunno scorso, ed era stato un flop, lo hanno richiesto in pochissimi imprenditori. E non perché la crisi non ci fosse, al contrario: se la cassa integrazione in deroga non ha avuto successo nei settori del tessile, abbigliamento, calzaturiero, pelletteria e conciario è perché – come ha scritto più volte al ministero l’assessora al Lavoro della Regione Toscana, Alessandra Nardini – non solo una volta fatta la legge ci è voluto un mese per avere la circolare attuativa, e c’erano incertezze sui tempi previsti, pur troppo brevi, ma soprattutto, spiega a Domani Nardini, «gli imprenditori avrebbero dovuto anticipare l’indennità, salvo conguaglio». Chi voleva usare la Cig in deroga, quindi, doveva metterci i soldi di tasca propria, avere la liquidità necessaria. Difficile, anzi impossibile se sei in crisi.
Ed è grave, la difficoltà in cui versano le aziende della filiera della moda. Nel 2024 i licenziamenti per motivi economici sono aumentati del 46 per cento, quasi 4mila in 12 mesi. La cassa integrazione – quella ordinaria – è in crescita e coinvolge 4 lavoratori su 100. Secondo i dati Ebret elaborati da Cna, le imprese artigiane della moda che hanno richiesto l’ammortizzatore sociale in regione sono state 829 contro le 604 dell’anno precedente: +37,2 per cento. L’export dei prodotti in cuoio ha segnato un meno 20 per cento, vanno ancor peggio le calzature: -23,6 per cento. Flessioni a due cifre anche per maglieria – che sfiora il -15 per cento di export rispetto al 2023 – e abbigliamento, -11,3 per cento.
«Dal ministero del Lavoro ci avevano assicurato un nuovo veicolo normativo, ma non c’è niente, nessuna notizia è arrivata», lancia l’allarme Fabio Berni, Filctem Cgil Toscana, che si chiede: «Il governo è inconsapevole di quello che sta accadendo qui? Eppure a più riprese ci siamo fatti sentire. L’esecutivo non ha risorse per un aiuto o sceglie di finanziare invece misure come la rottamazione delle cartelle, sottovalutando i rischi per migliaia di lavoratori? Servono politiche industriali e ammortizzatori per traguardare la crisi».
«Occorre una risposta veloce, non c’è tempo», conferma Nardini: «Abbiamo attivato un tavolo di confronto regionale. Ma dal governo non stanno arrivando le risposte di cui c’è urgente bisogno, non è possibile accettare di essere da due mesi e mezzo senza ammortizzatore sociale specifico. Occorre avere di nuovo un ammortizzatore sociale che superi queste criticità e che copra almeno tutto il 2025, le aziende soffrono, ci sono licenziamenti che non possiamo permettere e perdita di competenze che si farà sentire quando il settore ripartirà. Servono aiuti per superare la crisi e contemporaneamente è necessario un confronto con il livello nazionale per capire come rilanciare il settore. Non è possibile pensare che le imprese debbano anticipare le risorse e non è accettabile che pezzi della filiera siano rimasti esclusi dalla possibilità di utilizzarlo, lo abbiamo segnalato più volte negli scorsi mesi, inascoltati».
A essere stati dimenticati del tutto, infatti, sono gli operai del metalmeccanico collegati alla moda. Questione di codici Ateco, che classificano le attività economiche: al ministero i tecnici si sono dimenticati pezzi della filiera e non da poco. Come racconta a Domani Iuri Campofiloni della Fiom, borse, abiti e scarpe necessitano di parti in metallo: bottoneria, fibbie, cerniere ad esempio.
Manca però il codice che, in caso di proroga dell’ammortizzatore sociale ora scaduto, potrebbe tutelare «232 aziende piccole o piccolissime e ben 500 dipendenti, di cui ben il 78 per cento ora è in cassa integrazione ordinaria». Quando si esauriranno le ore, non esiste un paracadute. Gli ultimi dati disponibili sono dello scorso autunno: sono 6.200 gli addetti del comparto metalmeccanico collegati alla filiera, la crisi ha picchiato duro.
A giugno 2023 erano 8mila e a perdere il lavoro sono stati sia operai con contratto diretto che a termine, oltre che quelli in staff leasing. «Non ci sono strumenti per affrontare la difficoltà», dice Campofiloni, che spiega come il problema non è solo dei piccoli, bensì anche delle grandi aziende: «La parte artigiana assorbe le fasi di produzione che non prevedono investimento industriale: lavorazioni legatura e segatura sono state negli anni completamente affidate agli artigiani. Se loro si fermano, si ferma anche l’industria. Nessuna azienda, nemmeno i brand della moda più grandi, è in grado di immettere un prodotto completo sul mercato da sola. La filiera contoterzista è una specie di castello di carta: lavora in esclusiva sul lavoro affidatogli, quindi ogni possibilità di chiedere linee di credito alle banche regge sul volume di lavoro che riesce a muovere. Se gli artigiani non hanno continuità hanno un’immediata criticità e in banca».
Domani ha provato a contattare imprenditori e operai per raccontare storie e timori visti dal di dentro della crisi, ma chi ha perso tutto non se la sente di ripercorrere i momenti difficili, chi è in bilico non vuole farlo sapere ai concorrenti: «Gli imprenditori sono stufi, la quasi totalità fa questo lavoro da più di 30 anni, tengono la testa alta con dignità ma temono di perdere la faccia», spiega off the record chi li conosce all’interno delle categorie datoriali.
Nessuno vuole parlare. C’è chi ha paura: «I grandi brand hanno uffici legali molto potenti», ci dice un artigiano, che rifiuta di raccontarsi perché teme che i marchi della moda italiana si possano vendicare e cambiare fornitore in caso di affermazioni sgradite.
Già, i grandi brand. Quelli delle sfilate, dei negozi nei centri delle metropoli italiane ed estere. La Fiom fiorentina ha fatto i conti in tasca alle aziende che macinano utili e fanno del marchio “made in Italy” un valore aggiunto per esportare in tutto il mondo. «La crisi c’è perché si è scelto di produrre meno, di affamare il mercato e alzare il listino prezzi», dice Daniele Calosi di Fiom Toscana: «Abbiamo chiesto un incontro con le aziende, ma non ci hanno mai risposto. Vogliamo domandare loro perché a fronte di bilanci con grandi profitti debbano pagare la crisi solo i piccoli o i piccolissimi. I dazi dagli Usa rischiano di aggravare ulteriormente. Carta canta: la parte manifatturiera delle sei case di moda sul territorio ha registrato un ebitda totale da 1,85 miliardi di euro e utili netti per quasi 783 milioni di euro nel 2023, con un utile calcolato per addetto di 117.075 euro. Possibile che chi ha di più non possa fare qualcosa per chi ha di meno? Possibile che non possano in nessun modo sostenere la filiera che oggi versa in situazioni così critiche?».
Persino un’associazione datoriale come Unilavoro Pmi – 6mila imprese del settore iscritte, 3mila in provincia di Firenze – ha dovuto pronunciare una parola prima proibita: “Speculazione”.
Non usa mezzi termini il vicepresidente nazionale Giovandomenico Guadagno: «Grazie alla qualità assicurata dalle piccole aziende italiane della filiera, i grandi brand hanno acquisito visibilità nel mondo e si sono potuti permettere di raddoppiare i prezzi di una borsa rispetto agli anni pre-Covid, ma per una borsa venduta tra i 3mila e i 6mila euro le piccole aziende che la producono ne ricevono 30: immorale. Crisi è forse la parola sbagliata: il calo di redditività non è per tutta la filiera, gli utili aumentano e diminuiscono i volumi. Come altro si chiama questo fenomeno, se non speculazione?».
Da anni le case di moda lavorano in monocommittenza: «Dire oggi a una piccola azienda indebitata che deve diversificare per salvarsi è solo un modo per scaricarsi la coscienza. Serve un approccio etico, arrivando fino alla ridistribuzione degli utili, seppure in piccola parte. Ci sono oltre 300 aziende che hanno chiuso e prevediamo saranno almeno il triplo nei prossimi mesi. Non siamo ascoltati».
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