Nonostante i record sull’occupazione, le retribuzioni in Italia restano basse e non crescono. La politica si limita a denunciare, ma le vere cause sono strutturali e complesse
Costretti ad ammettere che sul versante dell’occupazione diventa sempre più difficile negare l’evidenza, perché da molti trimestri le rilevazioni statistiche continuano a segnalare nuovi record rispetto a quelle precedenti (anche gli ultimi della classe possono migliorare il loro profitto, pur senza riuscire a scalare la classifica), la banda degli sfascisti ha deciso di rivolgere le sue attenzioni a una criticità reale – il livello inadeguato delle retribuzioni – limitandosi però a denunciare lo stato delle cose senza sforzarsi di approfondirne i motivi. Pertanto da diversi mesi il dibattito si sviluppa così: a quanti fanno notare i dati positivi sull’occupazione, le sinistre politiche e sindacali rispondono con una raffica di ‘’sì però’’: la precarietà è dilagante; le retribuzioni sono basse. Mentre la prima obiezione è discutibile, a conforto della seconda viene citato un assist fornito dall’Ocse.
Il problema delle retribuzioni inadeguate e la risposta politica
Nell’ultimo rapporto sui salari, l’organizzazione dei paesi industrializzati ha indicato, tra i grandi Paesi aderenti al Gotha dell’economia mondiale, l’Italia come quello che ha registrato il maggior calo dei salari reali, dal momento che gli stipendi rapportati ai prezzi (i salari reali appunto) sono diminuiti di più. E non si tratta solo degli effetti dell’impennata dell’inflazione legata alle conseguenze della guerra in Ucraina, ma di aspetti strutturali che vengono da lontano. Infatti, ha scritto l’Ocse, tra il 1990 e il 2020 l’Italia è l’unico paese dell’Unione europea ad aver fatto registrare una variazione negativa dei salari reali. Pesante la perdita anche se si confrontano le retribuzioni medie di oggi in Italia con quelle del 2008, anno della crisi finanziaria che travolse il sistema bancario americano. Se si considera il rapporto tra prezzi e retribuzione oggi – ecco la severa sentenza circolata sui media – si guadagna meno che nel 1990. Poi si è avviato un percorso di ripresa. Adapt ha pubblicato di recente un working paper a cura di Jacopo Sala e Silvia Spattini, da cui emerge che il 2024 ha segnato una svolta per le retribuzioni contrattuali in Italia, con aumenti che finalmente hanno superato l’inflazione dopo anni di perdita di potere d’acquisto. Il recupero resta insufficiente: nel periodo 2019–2024, l’inflazione ha eroso i salari, portando a una perdita di potere d’acquisto pari al 7,1%.
Il calo dei salari reali in Italia e l’impatto dell’inflazione
Il tema delle retribuzioni viene affrontato in un breve saggio edito da Egea dal titolo ‘’La questione salariale’’, che consiste in un dialogo tra Andrea Garnero, economista dell’Ocse a Parigi, e Roberto Mania, un giornalista già inviato di Repubblica e scrittore, che si è occupato di lavoro lungo tutta la sua pluridecennale carriera, iniziata quando le vicende sindacali meritavano un titolo spesso in prima pagina dei più importanti quotidiani. Nel saggio vengono riprese ed organizzate vere e proprie filiere di dati ufficiali generalmente noti. Il principale interesse degli autori è quello di andare alla ricerca delle motivazioni che hanno determinato un sostanziale blocco delle retribuzioni (un fenomeno comunque differenziato per settori e territori), anche per individuare delle possibili vie d’uscita. La ricerca prende le mosse dal Protocollo del 23 luglio 1993 sottoscritto dal governo Ciampi e dalle parti sociali (fu l’occasione che indusse Mania a scrivere insieme ad Alberto Orioli il suo primo libro per Ediesse dal titolo ‘’L’accordo di San Tommaso’’, in cui veniva puntualmente commentata quell’intesa che Gino Giugni definì la Costituzione del lavoro). Il merito di quell’accordo è da attribuire alla definizione dell’architettura della contrattazione collettiva, con l’attribuzione di ruoli specifici per ogni livello. Mentre il contratto nazionale di categoria aveva il compito di tenere le retribuzioni in linea con l’inflazione (assorbendo la funzione storicamente svolta dall’indennità di contingenza, una specie di stabilizzatore dell’inflazione abolita l’anno precedente dopo un decennio di conflittualità sindacale e politica).
Le cause strutturali della crisi salariale e le soluzioni proposte
Per rafforzare questa funzione di tutela era disposto un confronto di medio termine al fine di tener conto degli eventuali scostamenti rispetto all’inflazione presa a riferimento. La leva principale per far crescere i salari reali – scrive Mania – in una situazione di inflazione calante, come si è verificato prima della fiammata dei prezzi energetici del 2021 (che hanno spiazzato l’IPCA), era secondo il Protocollo Ciampi (e degli accordi successivi) quella della contrattazione decentrata, che ha avuto scarsa diffusione anche per effetto della struttura produttiva dominata dalle Pmi. Sarà proprio l’incapacità delle aziende di crescere uno dei fattori determinanti di una politica salariale inadeguata. Già nel 1997 la Commissione presieduta da Gino Giugni per incarico del governo Prodi I aveva individuato il pericolo della diffusione dei c.d. contratti pirata, definiti, ricorda Garnero, come una sorta di aziendalizzazione del contratto nazionale. Con molta onestà intellettuale, gli autori – senza negare l’esigenza di uno strumento che misuri la rappresentatività degli attori sociali a partire dal mondo delle imprese – riconoscono – diversamente dalla propaganda sindacale – quanto sia limitata la platea dei lavoratori a cui si applicano questi modelli di dumping sociale (nonostante che il loro numero sia elevato e in crescita), mentre il 97% dei lavoratori dipendenti è coperto da un contratto stipulato da Cgil, Cisl e Uil, che spesso – dopo una prima fase di rinnovi puntuali e senza conflitti – subiscono lunghe vacanze dopo la scadenza. È quindi facile immaginare, sommando gli anni di durata dei contratti rinnovati con i tempi necessari alla preparazione delle piattaforme rivendicative e al negoziato, che finiscano per trascorrere un arco temporale troppo lungo in un regime di invarianza retributiva a fronte delle trasformazioni che possono intervenire nel frattempo. Ne è un esempio il picco dell’inflazione a cavallo tra il 2021 e 2022.
Il salario minimo: criticità e possibilità di introduzione
Un aspetto interessante del saggio è quello relativo alle cause strutturali della crisi dei salari, che viene fatta risalire alla mancanza della capacità della struttura produttiva italiana di adeguarsi nel decennio ’90 del secolo scorso alle trasformazioni dell’economia, cioè alle nuove competitività richieste dalla globalizzazione dell’economia e dal sorpasso dei servizi sulla manifattura. Dalle considerazioni degli autori emerge una data a confine tra due periodi: il 1995, quando tutto si ferma. Dal 1950 al 1995 il reddito nazionale italiano era aumentato del 30% in più che negli altri paesi europei; da più di vent’anni la situazione si è rovesciata. Sono gli altri paesi a crescere di oltre il 20% rispetto a noi. L’Italia ha pagato per il suo assetto complessivamente inadeguato (le Pmi, l’inefficienza della PA, i ritardi nella digitalizzazione, ecc.) alla crescita e quindi alla distribuzione del reddito. Ci sono due strade – scrive Garnero – per fare crescere il Pil: aumentare la popolazione o la produttività, meglio ancora un mix tra le due. In Italia, invece, si sono bloccate entrambe. E aggiunge che i salari bassi sono dovuti a tre fenomeni: le poche ore lavorate con retribuzioni ridotte per l’alto numero di part-time, la discontinuità dovuta al lavoro a termine, e tra i lavori a full-time la mancanza di retribuzioni alte sopra i 40mila euro l’anno (solo il 9% dei dipendenti).
Le cause dei salari bassi e l’intervento fiscale
Troviamo così conferma che la più rilevante differenza con gli altri paesi non riguarda le retribuzioni basse ma quelle più elevate. Attraverso il fisco si potrebbe agire per migliorare i salari reali. Viene fatto notare comunque che vi è un carico eccessivo sulle retribuzioni medio-alte che non usufruiscono neppure della decontribuzione, come, in precedenza, i loro percettori sono stati esclusi dai benefici erogati durante il covid, prima, e la crisi energetica e delle materie prime, poi. Gli autori richiamano l’attenzione sul fiscal drag: l’inflazione gonfia apparentemente i salari che vengono erosi in termini reali, mentre le aliquote progressive agiscono su redditi virtuali come se fossero reali. In proposito, gli autori forniscono dati che non emergono nel consueto dibattito sul tema dei redditi. Secondo uno studio di Marco Leonardi (citato), un lavoratore metalmeccanico che tra il 2023 e il 2024 ha avuto un aumento annuo di 2.691 euro ma ne ha lasciati ben 1.961 al fisco. In totale, nel 2024 le entrate da fiscal drag sono state comprese tra i 15,5 e i 17,9 miliardi di euro: un dato che ridimensiona gli esiti della lotta all’evasione. In conclusione, gli autori rivisitano la problematica del salario minimo, mettendone in evidenza le diverse criticità (in particolare le distorsioni settoriali e territoriali determinate da un importo unico sul piano basilare), pur convergendo in sostanza entrambi sulla sua introduzione.
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