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Etf esclusi dal portafoglio? Ecco cosa c’è da sapere




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Buongiorno a tutte e tutti,

bentornati a un nuovo appuntamento con la newsletter 4 Soldi da Investire. 

Tra le conferenze del Salone del Risparmio di Milano, che c’è stato la scorsa settimana e nel corso del quale abbiamo portato live il podcast 4 Soldi da Investire, una mi ha colpito in particolare. L’ha organizzata il colosso degli investimenti State Street con i professori universitari Paolo Cucurachi e Ugo Pomante.

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Il titolo era questo. Etf e consulenza: un’alleanza sempre più necessaria.

Nel corso della conferenza è stato chiesto alla platea, formata da consulenti indipendenti o legati a una rete di distribuzione (per la differenza vi suggerisco l’episodio del podcast live) di indicare in una scala da 0 a 10 l’importanza che secondo loro dovrebbero avere nel portafoglio dei clienti tre prodotti di investimento: fondi comuni, Etf e certificati*.

Ecco i risultati del sondaggio:

  • Fondi comuni 6/10
  • Etf 8/10
  • Certificati 4/10

Bene: quindi ci dobbiamo aspettare che gli Etf siano in assoluto il prodotto più presente nel portafoglio degli italiani serviti da un consulente. Abbiamo già visto che non è così, ma durante la conferenza i due professori hanno fatto la prova del nove. Quanto pesano questi tre prodotti nel portafoglio totale delle reti di consulenza (quindi ESCLUSI i consulenti indipendenti)?

  • Fondi comuni: 241 miliardi di euro
  • Etf: 15 miliardi
  • Certificati 13 miliardi

Che strano, no? Gli Etf pesano tanto quanto i certificati. E allora perché noi a 4 Soldi da Investire parliamo sempre di Etf e mai di certificati? E soprattutto, perché parliamo ancora di Etf se i fondi comuni pesano 16 volte tanto?

Siamo in presenza di un bel paradosso, e l’ha confermato lo stesso professor Pomante: «In termini di risultati si attribuisce ai certificati la stessa dignità degli Etf: stiamo mettendo sullo stesso livello la parte essenziale di un portafoglio con quello che può essere un orpello per investitori sofisticati».

In realtà, questo sondaggio tra esperti del settore e successive considerazioni hanno un ruolo cruciale anche per noi primi investitori:

  1. Perché se andiamo da un consulente legato a una banca abbiamo appena 1 possibilità su 16 che ci venga offerto un Etf?
  2. Perché nonostante ciò continuiamo a dire che gli Etf sono gli strumenti base per iniziare a investire?

Il tema emerso dalla conferenza, che poi è IL TEMA cruciale dei primi investimenti, è quello dei costi.

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Che gli Etf costino molto meno dei fondi comuni attivi è un dato di fatto (qui spiego quanto fanno risparmiare gli Etf). D’altronde, il principio dei fondi quotati passivi (per comodità non buttiamo nel calderone anche gli Etf attivi) è proprio questo: in cambio di spese ridotte se non quasi azzerate si rinuncia alla possibilità di cercare di battere il mercato, che è il lavoro dei fondi attivi.

A noi investitori interesse di fatto solo un punto: qual è il rendimento al netto dei costi del prodotto di investimento che compriamo

Nel lungo periodo, molti studi dimostrano che è raro che i fondi attivi (specialmente azionari) riescano a fare meglio degli Etf. Questo succede per due motivi:

  1. I mercati sono tendenzialmente efficienti e per un professionista è difficile riuscire ogni anno a fare meglio. Perfino Warren Buffett, considerato il più grande investitore di tutti i tempi, per ogni due anni che ha vinto un anno ha perso
  2. I fondi attivi costano di più, e questi costi riducono i guadagni netti per chi investe

Questo non vuol dire che tutti i fondi attivi vadano male ma in media, per un investitore comune, è più probabile ottenere risultati migliori (o simili, ma spendendo meno) con gli Etf.

C’è un ulteriore punto, che Morningstar ha indicato come il peccato originale dell’Italia: la ragione per cui il Paese ha il costo dei fondi comuni più alti al mondo.

E questo tema è il modo in cui la distribuzione bancaria, cioè quella che concretamente ti vende il fondo, viene pagata per il lavoro che fa.

Il modello tradizionale della vendita dei fondi si basa sulle commissioni di retrocessione: «Il flusso dei ricavi, cioè i costi per il cliente, arriva al produttore, che poi ne retrocede una parte al distributore», ha spiegato il professor Cucurachi. Questo NON significa che ci sia per forza un comportamento scorretto, ma c’è un «potenziale conflitto di interessi che porta i distributori a non vendere prodotti che non retrocedono nulla». 

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Lo dico in modo più semplice: che vantaggio dovrei avere io consulente a vendere a te investitore un Etf che costa lo 0,1% se poi in tasca non mi ritorna praticamente nulla? Non è forse meglio vendere un fondo attivo che ha commissioni del 2% e prendermi uno 0,9%-1% di retrocessioni (fonte: EY per Milano Finanza)?

Attenzione però: visto che le performance degli Etf (quindi del mercato) sono così difficili da battere, e i costi estremamente più bassi, sono stati i consulenti i primi a rendersi conto che il miglior servizio al cliente si piò fare con un mix di Etf (la parte centrale del portafoglio, soprattutto nella componente delle azioni) e fondi comuni che invece, dati alla mano, sono ancora più efficienti nella parte obbligazionaria, in particolare nel segmento dei bond societari, come spiego anche in questo articolo di Milano Finanza.  

Sta prendendo sempre più piede quindi (e lo abbiamo visto anche nel podcast live) il modello della consulenza a parcella: paghiamo il consulente NON per quello che ci vende, ma per il servizio che ci offre. E gli paghiamo una parcella, esattamente come se andiamo dal nutrizionista: il suo compenso deriva dal piano alimentare che ci fa, non dalle commissioni che gli paga (retrocede) il marchio di pasta Y perché lui ce l’ha venduta.

Attenzione a un ultimo punto, che hanno segnalato anche i professori Cucurachi e Pomante durante la conferenza. In Italia si è generato un dibattito sul tema dei costi che vede contrapposti:

  • Quelli per cui gli Etf sono il demonio (spesso provenienti dal mondo reti-banche)
  • Quelli per cui in un portafoglio devono esistere solo Etf (spesso provenienti dalla consulenza indipendente)

La verità è nel mezzo. Se qualcuno vi dice che la gestione attiva non ha più senso di esistere perché costa troppo e non rende abbastanza, provate a pensare a una cosa (io mi sono fatto la domanda in questo articolo): ma se tutti i prodotti di investimento del mondo copiassero degli indici di mercato chi finanzierebbe le società che saranno i campioni di domani? Se all’inizio degli anni 2000 non ci fossero stati fondi attivi, nessuno avrebbe scommesso su Facebook (oggi Meta), Amazon, Google…semplicemente perché un Etf ci avrebbe investito solo in base al loro peso negli indici dell’epoca. Un peso quasi nullo.

Alla prossima settimana!

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*I certificati o certificates sono strumenti finanziari derivati cartolarizzati che replicano, con o senza effetto leva, l’andamento di un’attività sottostante (fonte: glossario di Borsa Italiana)



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