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Israele e Palestina: fallita la tregua si riaccende il conflitto


In Israele e Territori palestinesi si conferma la ripresa delle ostilità su più versanti: dalle intense proteste interne per l’operato del governo Netanyahu, ai bombardamenti su Khan Younis, fino alle operazioni militari in Cisgiordania. Il quadro generale rende difficile la costruzione nel breve-medio periodo di un meccanismo politico e diplomatico che possa mettere fine al conflitto che imperversa sin dal 7 ottobre 2023.

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Gaza: ripristinare una tregua che sembra sempre più lontana 

Dopo due mesi di trattative, che avrebbero dovuto condurre alla cosiddetta “fase 2” degli accordi di cessate il fuoco stabiliti il 19 gennaio scorso, Israele e Hamas hanno definitivamente rotto gli indugi troncando la tregua il 18 marzo. Tel Aviv ha accusato la controparte palestinese di aver volontariamente boicottato i negoziati mediati da Stati Uniti, Egitto e Qatar, rompendo così quella fragile intesa che in qualche modo ha segnato una sorta di de-escalation nell’intera regione levantina. Da parte sua, l’organizzazione islamista ha accusato Israele e gli Usa di aver voluto cambiare i termini degli accordi stabiliti (attraverso l’introduzione del cosiddetto “piano Witkoff”[1]) con il chiaro obiettivo di boicottare i negoziati e promuovere una campagna di delegittimazione ai danni suoi e della popolazione palestinese. Ciononostante, Hamas ha fatto sapere di non voler chiudere le porte alla diplomazia e di essere disponibile a valutare una nuova proposta che miri a ripristinare una tregua a Gaza. Rientra in questa ottica, l’ultima iniziativa egiziana che prevederebbe il rilascio di cinque ostaggi israeliani da parte di Hamas ogni settimana, e successivamente l’avvio di una seconda fase di trattative con Tel Aviv volte a instaurare un nuovo cessate il fuoco. Sebbene il tentativo sia ambizioso, i mediatori internazionali sono coscienti della scarsa possibilità di un ritorno ai negoziati, almeno nel breve periodo, in virtù della profonda distanza esistente tra Israele e Hamas, a cominciare dal futuro della governance nella Striscia alla tipologia di occupazione che subirà l’enclave palestinese, per non parlare dell’assenza di volontà dell’organizzazione islamista di abbandonare la lotta armata quale strumento di confronto politico con Tel Aviv[2].

Al di là delle reciproche accuse, la ripresa inaugura, sul piano operativo e umanitario, una fase nuova tanto intensa quanto imprevedibile. Secondo i dati forniti dal ministero della Salute di Hamas, dall’inizio dell’offensiva, le azioni terrestri e aeree coordinate dallo Stato maggiore israeliano hanno provocato all’incirca 800 morti, andando così ad aumentare il già gravoso bilancio di perdite umane dal 7 ottobre 2023 che ha sfondato il muro delle 50.000 vittime[3]. Durante uno degli ultimi bombardamenti a Khan Younis, l’aviazione israeliana ha ucciso Salah al-Bardaweel, un comandante di alto livello del bureau politico di Hamas nella Striscia insieme ad Abdel-Latif al-Qanoua, portavoce di Hamas. Tel Aviv ha, altresì, avvertito la popolazione palestinese e i leader dell’organizzazione islamista che in assenza di un rilascio di tutti gli ostaggi (dovrebbero essere 59 quelli ancora in vita), Israele sarà pronto a rafforzare la sua presenza sul territorio, annettendo parti di Gaza – anche tramite il controllo dei corridoi di Netzarim e di Philadelphi – e aprendo tra Khan Younis e Rafah un nuovo passaggio militare, il cosiddetto “Asse di Morag”, che di fatto isolerebbe quella porzione di territorio dal resto della Striscia[4]. Ciò, quindi, ha comportato un ulteriore restringimento delle zone umanitarie sicure per la popolazione, visto che l’area deputata di al-Mawasi, lungo la costa meridionale della Striscia, è stata nuovamente bersagliata dai raid israeliani[5]. Una condizione di disastro umanitario che non ha fatto altro che accrescere la frustrazione e la rabbia della popolazione locale contro Hamas, tanto da spingerla a scendere in piazza e a protestare pubblicamente contro l’organizzazione al potere nella Striscia dal 2006 (26 marzo). Una protesta non così comune, ma divenuta alquanto frequente e dettata dal profondo disagio vissuto dai palestinesi di Gaza, i quali imputano alla milizia islamista le responsabilità maggiori per la guerra iniziata 18 mesi fa[6].

Contestualmente, nelle stesse ore, Israele lanciava una nuova fase di duri raid aerei contro i campi profughi, le scuole e gli ospedali. Nelle intenzioni del governo di Tel Aviv, una mossa simile costringerebbe la popolazione locale a essere dispersa forzatamente all’interno di Gaza – ormai considerato dai vertici israeliani un obiettivo legittimo nella sua interezza – o a essere sfollata massivamente al di fuori del territorio palestinese, possibilmente nel Sinai, oltre la frontiera egiziana. In tale prospettiva, Israele ha annunciato la creazione di un “Ufficio per l’emigrazione volontaria” per i residenti di Gaza interessati a trasferirsi in paesi terzi, che opererà in coordinamento con le organizzazioni internazionali e altri organi di governo[7]. Una mossa in continuità con il piano di “riviera mediorientale” a Gaza originariamente annunciato dal presidente statunitense Donald Trump per espellere i palestinesi dalla Striscia. Di fatto, una formula che avvallerebbe in qualche modo una sorta di “pulizia etnica” a Gaza. Tali evoluzioni, però, non sono da considerarsi un qualcosa di estemporaneo, ma si intrecciano a tutta una serie di eventi occorsi nell’arco degli ultimi due mesi che hanno visto nella nuova amministrazione Trump e nel governo Netanyahu un asse volto a rimescolare le carte in tavola sin dalla fase successiva alla tregua del 19 gennaio[8].

Un primo punto di svolta in tal senso si è avuto con l’annuncio statunitense di voler creare una “riviera” a Gaza (4 febbraio)[9]. Una proposta clamorosa che ha visto lo stesso presidente Trump sostenere un possibile sfollamento forzato dei gazawi verso i territori di Egitto e Giordania, con una “vendita” non ben definita del territorio della Striscia alle autorità israeliana. Al di là della stravaganza dell’ipotesi avanzata, e della sua dubbia legittimità internazionale, l’aspetto più critico dell’idea trumpiana risiede nell’avallare uno scenario che implicherebbe la deportazione della popolazione palestinese. Un progetto fino a oggi sostenuto solo dalle frange più estreme dell’esecutivo Netanyahu e contrastato da Nazioni Unite e paesi arabi. Non a caso, il clamore provocato dalla proposta statunitense ha fatto sì che i principali attori della politica araba si riunissero e condividessero un piano alternativo per bloccare i propositi israelo-statunitensi[10]. In tale quadro rientra il secondo punto di svolta, ovvero la proposta egiziana da 53 miliardi di dollari per la ricostruzione di Gaza, deciso in seno alla Lega araba il 4 marzo al Cairo. Tra gli aspetti più rilevanti, è prevista una ricostruzione del territorio entro il 2030, senza espellere la popolazione e con una fase di governance di sei mesi a guida mista palestinese, con un ruolo esterno di garanzia da parte di Egitto e Giordania, che favorisca nel post-conflitto una transizione ordinata verso una piena stabilizzazione guidata dall’Autorità nazionale palestinese (Anp). È evidente che questa nuova fase di conflitto rappresenta un ulteriore passo verso una riorganizzazione dei rapporti di forza all’interno di Israele quanto del panorama politico palestinese, con tutti i riflessi pericolosi che ciò potrebbe comportare sul fragile e frammentato piano regionale[11].

Israele: un quadro interno sempre più controverso

Nel corso del mese di marzo la politica israeliana ha preso una piega alquanto drammatica che potrebbe aprire scenari inquietanti per lo stato, la sua società e le sue istituzioni. La catena di eventi è senza alcun dubbio iniziata nel 2022 con l’avvio della cosiddetta riforma giudiziaria, ma nelle ultime settimane di marzo ha subito un’accelerata a causa delle decisioni del governo di licenziare il capo dell’Agenzia per la sicurezza israeliana (Shin Bet) Ronen Bar e di votare la sfiducia alla procuratrice generale Gali Baharav-Miara. 

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La decisione politica di procedere alla sostituzione di queste due alte cariche istituzionali è controversa perché porta con sé un enorme conflitto d’interessi da parte del primo ministro Benjamin Netanyahu. Per quanto riguarda Ronen Bar, la decisione è senza precedenti: nei 77 anni di esistenza di Israele, nessun capo dell’agenzia di intelligence interna era mai stato licenziato. La tensione tra Netanyahu e Bar risale dall’inaugurazione della riforma giudiziaria quando Bar aveva lanciato un duro avvertimento contro l’esecutivo. In quell’occasione il capo dello Shin Bet aveva dichiarato che le azioni del governo stavano lacerando la società israeliana e avrebbero potuto persino provocare un attacco militare da parte dei suoi nemici[12]. La distanza tra il direttore e il primo ministro si è acuita a seguito degli attacchi del 7 ottobre, in quanto Bar ha continuato ad appellarsi al governo per l’apertura di una commissione d’inchiesta che investigasse sulle responsabilità della politica in merito all’impreparazione israeliana e a ribadire la priorità degli sforzi per il rilascio di tutti gli ostaggi detenuti a Gaza. Due elementi totalmente divergenti dalla linea politica intrapresa da Netanyahu. 

Anche se la fine del mandato di Bar era prevedibile, proprio a causa delle falle di sicurezza mostrate in occasione del 7 ottobre (lui stesso aveva accettato la piena responsabilità del suo ruolo nella catastrofe), il suo licenziamento non è stato motivato da questa ragione, come affermato da Netanyahu, ma bensì dalla sua mancanza di fiducia in Bar[13]. Sembra inoltre esserci un’altra ragione dietro alla decisione del primo ministro: nelle settimane precedenti il direttore dello Shin Bet, insieme alla polizia israeliana, aveva infatti deciso di avviare un’indagine nei confronti di due stretti collaboratori di Netanyahu, Yonatan Urich ed Eli Feldstein, sospettati di intrattenere legami e transazioni finanziarie dubbie con il Qatar. Il cosiddetto Qatargate[14] potrebbe far crollare l’impalcatura di potere costruita da Netanyahu negli ultimi quindici anni; per questo, la decisione del primo ministro di licenziare Bar lo pone in un conflitto di interessi sollevando il sospetto che il licenziamento sia finalizzato a ostacolare l’indagine per paura che possa coinvolgere anche Netanyahu. Il 31 marzo, la polizia ha arrestato Urich e Feldstein, mentre il procuratore generale ordinava alla polizia di convocare il premier per una testimonianza nell’ambito dell’inchiesta in corso[15].

Conflitto di interesse a parte, il licenziamento del capo dello Shin Bet potrebbe anche intaccare la solidità della democrazia israeliana. Infatti, questa agenzia di intelligence, oltre a contrastare il terrorismo, lo spionaggio e indagare su atti di tradimento ha un altro ruolo delicato e unico: secondo la legge, è infatti responsabile della salvaguardia delle istituzioni democratiche del paese[16]. Dati i poteri dello Shin Bet, il licenziamento del suo direttore, percepito come politicamente avverso al governo, solleva preoccupazioni sul fatto che la nomina di un suo successore meno indipendente o qualificato potrebbe trasformare l’agenzia in uno strumento al servizio dell’esecutivo. In questo scenario, è importante sottolineare il ruolo che le istituzioni giudiziarie possono avere nell’evitare uno scivolamento verso una crisi costituzionale; in particolar modo l’Alta Corte di giustizia che sta gestendo la disputa legale sulla decisione del governo di licenziare Bar. Il procuratore generale Gali Baharav-Miara aveva precedentemente istruito il governo in merito al corretto processo decisionale amministrativo per procedere con il licenziamento. Ma, a quanto pare, le condizioni indicate non sono state rispettate, e ciò ha spinto la Corte a bloccare temporaneamente il licenziamento del direttore dello Shin Bet, invitando entrambe le parti a negoziare un compromesso entro il 20 aprile[17].

Questa ennesima impasse tocca il cuore stesso dello scontro politico tra il governo e il sistema giudiziario, creando un chiaro collegamento tra la disputa con Bar e il voto di sfiducia del governo nei confronti della procuratrice generale Baharav-Miara[18]. Le motivazioni dietro alla sfiducia sarebbero legate alla volontà da parte del primo ministro di fermare il processo in corso a suo carico che un procuratore generale più amichevole di Baharav-Miara potrebbe decidere di chiudere. Per questo motivo anche questa decisione solleva enormi interrogativi sul conflitto di interessi del primo ministro. Oltre alle questioni giudiziarie di Netanyahu, ad aver condotto alla sfiducia del procuratore generale ci sarebbe la volontà del governo di mantenere in vigore l’esenzione dal servizio militare dei giovani haredim, a cui Baharav-Miara si è fortemente opposta, avvertendo più volte come sia di fatto in aperta contravvenzione[19] all’ordine della Corte suprema dello scorso giugno[20].

Ciononostante, a pochi giorni da questi eventi, la coalizione ha poi approvato alla Knesset la legge di bilancio per il 2025[21], rimuovendo così una possibile minaccia alla stabilità del governo. Successivamente il parlamento ha proceduto all’approvazione di una legge che politicizza il processo con cui Israele sceglie i suoi giudici e i giudici della Corte suprema[22]. La modifica aumenta di fatto il potere dell’esecutivo e indebolisce l’indipendenza della magistratura e la sua capacità di rivedere le decisioni del potere esecutivo e legislativo.  

Secondo quanto rilevato dall’ultimo sondaggio di Channel 12[23], una considerevole maggioranza di israeliani non ha fiducia nella leadership del paese (70%) e chiede che le autorità politiche responsabili delle falle del 7 ottobre si dimettano, incluso il primo ministro. Secondo lo stesso sondaggio il 65%[24] della popolazione israeliana sarebbe favorevole all’istituzione di una commissione nazionale d’inchiesta. Manifestazioni di massa si sono svolte nel paese negli ultimi giorni di marzo per protestare contro l’azione del governo[25]: dalle dimissioni di Bar, alla riforma giudiziaria, fino alla questione degli ostaggi e la tregua a Gaza. Mentre le divisioni si acuiscono, con le elezioni in programma solamente a ottobre 2026, le chance degli israeliani di dettare una correzione di rotta in tempi brevi appaiono ridotte.

La mancata strategia della politica estera israeliana

Per quanto riguarda le prospettive di politica estera e di sicurezza regionale, il Rapporto annuale della Comunità di intelligence statunitense del 2025[26] ha avvertito che, riguardo ai teatri di confronto militare (Gaza, confine libanese-siriano e Iran), prevarrà una situazione di volatilità, con le minacce di Hamas e Hezbollah che continueranno a rimanere attive seppur in forma depotenziata.  

In Siria, dopo il crollo del regime di Assad, Israele ha messo in pratica un’azione rapida volta ad assicurarsi il controllo e occupare la zona cuscinetto tra i due paesi nelle alture del Golan (di circa 5 Km, creata per separare le forze armate siriane e israeliane nel 1974[27]). L’obiettivo dichiarato da Tel Aviv è quello di impedire a forze para-militari siriane di stabilirsi nell’area confinante con Israele finché non vi sia un nuovo accordo sulla presenza delle forze di interposizioni presenti nell’area. Tra gli aspetti più importanti che verrebbero rivalutati vi sarebbero l’estensione delle limitazioni imposte al numero di truppe e al tipo di armi impiegate, oltre all’istituzione di un meccanismo di monitoraggio e coordinamento internazionale. Il monitoraggio da parte di terzi potrebbe essere garantito rivedendo il mandato della Forza di disimpegno degli osservatori delle Nazioni Unite (Undof[28]) tramite il Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite. A partire dal cambio di regime in Siria e in seguito all’ascesa al potere di Ahmed al-Shara‘, le Forze di difesa israeliane (Idf) hanno effettuato decine di raid su siti militari appartenenti sia al precedente regime sia al governo attuale con l’obiettivo di contrastare qualsiasi tentativo di Damasco di stazionare il proprio esercito vicino al confine.  Nel frattempo, il governo di Netanyahu ha cercato di costruire relazioni con le comunità druse siriane; in linea con questi tentativi, il 1° marzo Netanyahu ha suggerito di intraprendere un’azione militare per proteggere la minoranza dalle forze governative islamiste. Inoltre, Israele ha avviato un nuovo programma di aiuti per i 50.000 residenti drusi in una serie di villaggi sulle pendici del Monte Hermon e concedendo permessi di lavoro ai drusi residenti in Siria[29]. Tuttavia, la strategia israeliana di sfruttare le divisioni settarie siriane per stabilire zone di influenza (e potenzialmente di controllo) potrebbe entrare in conflitto con le forze regionali e internazionali[30].

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Anche sul versante libanese si assiste ad un trinceramento delle posizioni israeliane; il 14 marzo il ministro della Difesa Israel Katz ha dichiarato che le Idf rimarranno schierate in cinque punti strategici nel Libano meridionale a tempo indeterminato indipendentemente dai negoziati in corso con Beirut[31]. Questa dichiarazione sembrerebbe contraddire quanto avvenuto nei giorni precedenti, quando Israele e Libano avevano infatti dichiarato la riapertura dei negoziati per risolvere le questioni di confine[32] riguardanti appunto le località in cui l’esercito israeliano è presente in Libano e le località contese lungo la Linea Blu. Le forze israeliane stanno espandendo il loro controllo sui territori confinanti di Siria e Libano nel tentativo di prevenire attacchi simili al 7 ottobre, complicando però gli sforzi di risoluzione dei conflitti esistenti. Israele sta traendo insegnamento dall’attacco a sorpresa di Hamas contro le comunità israeliane vicino a Gaza il 7 ottobre 2023 ridefinendo i propri confini settentrionali in base alle proprie esigenze di sicurezza[33]. Se alla vigilia dell’insediamento del presidente americano Donald Trump sembrava che la matassa mediorientale si stesse faticosamente dipanando, i due mesi successivi si sono trasformati in montagne russe geopolitiche a causa della continua ridefinizione delle linee di azione della Casa Bianca[34].   L’approccio di Trump sta avendo un impatto significativo sull’azione esterna israeliana, non solo per quanto riguarda Gaza ma lungo tutti i dossier regionali: il sostegno all’approccio muscolare verso Hamas e Hezbollah e l’apprezzamento per il ruolo che le operazioni delle Idf hanno svolto nell’indebolire l’asse iraniano nella regione, hanno fatto sì che Trump abbia concesso per il momento carta bianca a Israele. Non vi è dubbio che ciò sia visto positivamente dall’attuale governo di Netanyahu, in quanto ne assicura la sopravvivenza. Questo però non significa che coincida con l’ottenimento nel lungo periodo di un migliore posizionamento regionale. Infatti, il rischio è che un Israele sempre più isolato in Medio Oriente, a causa del suo approccio militare muscolare, potrebbe diventare per Washington un ostacolo a eventuali piani dell’amministrazione Trump di ridefinire gli equilibri regionali[35].  

Operazioni militari in Cisgiordania ed evoluzione politica intra-palestinese

Mentre l’attenzione internazionale è rivolta nuovamente verso Gaza, rimane invece ampiamente sottostimata la situazione politica, umanitaria e militare in corso da diverse settimane a Jenin e nelle aree del centro-nord della Cisgiordania (specie tra Tulkarem, Nur Shams, Tubas e al-Fara’a). Tecnicamente, l’assalto israeliano lanciato a Jenin non ha decretato una violazione della tregua, ma ha chiaramente inviato un segnale politico molto forte e chiaro, mascherato da necessità politiche e di sicurezza di Tel Aviv. Così il 21 gennaio il governo Netanyahu ha deciso di avviare, con il beneplacito statunitense, l’operazione antiterrorismo “Muro di ferro”, la più grande offensiva militare lanciata dai tempi della seconda intifada. Nelle indicazioni fornite dal governo israeliano, l’operazione mira a sradicare le cellule di Hamas, Jihad islamico palestinese (Pij) e Iran presenti in Cisgiordania. “Muro di ferro” ha previsto l’impiego di personale di polizia, delle Idf, nonché delle unità dei servizi di intelligence dello Shin Bet e del Mossad. La porzione di territorio interessata, benché contenuta in termini spaziali, è divenuta in realtà il teatro più rilevante nel circolo vizioso di violenze[36] che sta ridefinendo il Medio Oriente dall’ottobre 2023[37]. Secondo le elaborazioni di Armed Conflict Location & Event Data (Acled Data), dall’inizio delle operazioni, le morti accertate sarebbero 64: 56 palestinesi, tre soldati e nove civili israeliani[38]. Tra le altre azioni di polizia in corso, le Idf hanno arrestato circa 300 militanti palestinesi. Sempre secondo Acled Data, nell’arco dei due mesi di “Muro di ferro” si è registrato un tasso di aumento degli incidenti violenti del 20%. Infine, sarebbero almeno 40.000 le persone che sono state costrette a lasciare la propria dimora e sono state espulse dalle aree oggetto delle azioni militari, segnando il più grande spostamento di persone in Cisgiordania dalla Guerra dei sei giorni del 1967[39].

Nella prospettiva israeliana, “Muro di ferro” cela due obiettivi correlati: da un lato, la possibilità di replicare a Jenin metodi e tattiche già adoperate a Gaza, proponendo una sorta di “gazificazione” della Cisgiordania; dall’altro lato, si assiste a una ricerca ossessiva da parte di Tel Aviv dell’annessione unilaterale dell’intera area in questione. Questo progetto era già stato in parte sperimentato – ma non andato a buon fine – dal governo Netanyahu nel giugno 2020, alcuni mesi prima della firma degli Accordi di Abramo (settembre 2020). Così al fine di salvaguardare gli interessi di sicurezza israeliani nell’area con il chiaro intento di ampliare il numero di centri abitati, insediamenti, posti di blocco e divieti israeliani. Al contempo, le Idf hanno rafforzato la propria presenza lungo tutto il confine in Cisgiordania, mentre all’interno del territorio i coloni armati hanno spinto gli abitanti palestinesi ad abbandonare le loro case. “Muro di ferro”, dunque, diviene l’ultimo capitolo di una storia di instabilità e violenza che ha inflitto enormi sofferenze ai civili palestinesi, con Jenin quale fulcro sostanziale di tale manovra[40].

Mascherata da operazione antiterrorismo, “Muro di ferro” nutre, quindi, altre ambizioni favorite dalle crescenti divisioni nel campo palestinese. Qui, infatti, la resistenza a Israele si presenta come un insieme frammentato e non unitario, e la distinzione tra combattenti per la libertà e terroristi è spesso molto sfumata. Oltre alle milizie riconosciute e regolarmente inquadrate nelle Brigate Izzedin al-Qassam (il braccio armato di Hamas), in quelle dei Martiri di al-Aqsa (vicine a Fatah) o nel Pij, vi è una miriade di sigle, come la Fossa dei leoni o le Brigate Nablus, che combattono contro le Idf e le stesse formazioni palestinesi. A ciò, bisogna aggiungere le divisioni politiche all’interno e tra le fazioni palestinesi, che sembrano avvantaggiare indirettamente l’avanzata israeliana in Cisgiordania. Hamas ha esortato la popolazione a sollevarsi contro l’Anp, la quale tuttavia ha risposto aumentando la pressione nei confronti dei palestinesi e rafforzando, per opportunità, la collaborazione di polizia con Tel Aviv. In tal senso, l’Autorità nazionale palestinese, pur reclamando legittimità, è oggi vista con crescente sfiducia dalla popolazione palestinese, specie per i suoi metodi di governo sempre più autoritari in Cisgiordania[41].

Una sfiducia politica e morale accresciuta nei 18 mesi di guerra che, tuttavia, si è riversata anche sul piano internazionale, lì dove i consensi arabi nei confronti dell’Anp sono ai minimi storici. Ne è stata una plastica dimostrazione quanto andato in scena durante i lavori del vertice del Cairo della Lega araba (4 marzo). Nel consesso è stata sì approvata una proposta egiziana per Gaza che confutava l’idea trumpiana di riviera mediorientale, ma la stessa iniziativa ha trovato qualche esitazione nelle monarchie del Golfo. Pur condividendo uno spirito di unità araba verso la proposta egiziana, Riyadh e Abu Dhabi in un certo senso hanno ridotto la portata del documento per quel che riguardava la questione della governance palestinese nel post-conflitto e, con riferimento specifico, al ruolo di Abu Mazen, fortemente contestato dalla popolazione palestinese in Cisgiordania. Infatti, Arabia Saudita ed Emirati Arabi Uniti hanno in un certo qual modo ridimensionato l’ipotesi di un’Anp così organizzata alla guida di Gaza, sostenendo che la sua debolezza e scarsa legittimazione popolare non garantirebbe stabilità e sicurezza dell’area dopo la guerra, sostenendo, piuttosto, una necessità di discontinuità coinvolgendo altri attori palestinesi in grado di agire nel periodo post-conflitto dell’enclave[42].

A ogni modo, nel testo scaturito dalla dichiarazione del Cairo è prevista l’istituzione di un gabinetto tecnico senza membri affiliati alle 15 fazioni palestinesi riconosciute. Questo organo dovrebbe amministrare il territorio e coordinare gli aiuti, con il ritorno dell’Anp a Gaza come obiettivo finale. Tramite il presidente Abu Mazen, l’Autorità nazionale palestinese si impegna a indire elezioni entro un anno, se le condizioni lo permetteranno[43]. Sul piano della sicurezza, forze egiziane e giordane formeranno le fazioni palestinesi sotto supervisione dell’Anp. Nonostante i buoni propositi, il piano arabo-egiziano presenta molte criticità, a cominciare dall’assenza di chiarezza sulla futura governance, così come sul ruolo delle varie fazioni palestinesi che verranno coinvolte e ritenute legittime. Fatah e Hamas restano centrali, ma non è chiaro se un governo di unità nazionale sia possibile né come sarebbe accolto da Israele e Stati Uniti. Inoltre, una possibile esclusione di Hamas da futuri assetti politici post-conflitto a Gaza rischia di creare nuove tensioni, soprattutto in Cisgiordania, dove potrebbe scatenarsi una rivolta popolare. Alla luce di quanto descritto è evidente che l’impennata di violenze che ha colpito Jenin e la Cisgiordania ha amplificato le sfide strutturali estremamente intricate che caratterizzano nella sua interezza la questione palestinese[44].


[1] Per maggiori dettagli sul piano Witkoff, si veda “Il piano alternativo per il cessate il fuoco che piace molto a Israele”, Il Post, 5 marzo 2025.

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[2] I. Dahman, E. Yosef, T. Lister, T. Alrajjal e V. Cotovio, “Israel says it will maintain ‘permanent’ presence in Gaza unless hostages are freed”, CNN, 21 marzo 2025.

[3] T. Bennet, “More than 50,000 killed in Gaza since Israel offensive began, Hamas-run ministry says”, BBC, 23 marzo 2025.

[4] “Netanyahu says Israel establishing new security corridor in Gaza to ‘pressure Hamas’ – and plans to seize ‘large areas’”, Sky News, 2 aprile 2025.

[5] T. Ambrose e A. Sedghi, “Middle East crisis: Israel defence minister threatens to annex parts of Gaza unless Hamas frees remaining hostages – as it happened”, The Guardian, 21 marzo 2025.

[6] R. Barbi, “A Gaza la popolazione protesta: ‘Fuori Hamas dalla Striscia’”, Vatican News, 26 marzo 2025. 

[7] D. Karni, T. Lister e N. Ebrahim, “Israel approves controversial proposal to facilitate emigration of Palestinians from Gaza”, CNN, 24 marzo 2025.

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[8] J. Lis e Y. Kubovich, “Israeli Government Approves Bureau for ‘Voluntary Emigration’ of Palestinians From Gaza”, Haaretz, 23 marzo 2025.

[9] C. Da Silva e C. Gubash, “U.S. and Israel reject plan agreed to by Arab states proposing alternative to Trump’s Gaza ‘Riviera’”. NBC News, 5 marzo 2025.

[10] A.M. Brogi, “Usa-Israele. Trump ha un piano per fare di Gaza la Riviera americana. Senza palestinesi”, Avvenire, 5 febbraio 2025.

[11] J. Fisayo-Bambi, “Gaza, ok dei Paesi arabi a piano egiziano da 53 miliardi per ricostruire senza evacuare i palestinesi”, Euronews, 5 marzo 2025.

[12] E. Fabian, “Shin Bet chief warns Israel’s internal strife provides shot in the arm for terrorism”, Times of Israel, 11 settembre 2022. 

[13] The Firestorm Over Firing Ronen Bar: Understanding the Shin Bet Chief’s Dismissal and Its Implications”, Israel Policy Forum, 21 marzo 2025.

[14] A. Kaplan Sommer, “From Watergate to Qatargate: Following the Money to a Prime Minister Who Insists He Is ‘Not a Crook’”, Haaretz, 31 marzo 2025.

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[15] “Eli Feldstein, Yonatan Urich arrested in ‘Qatar-Gate’ affair”, i24News, 31 marzo 2025.

[16] S. Ganot, What the Shin Bet Does – and Why Its Leadership Matters”, The Media Line, 31marzo 2025.

[17] S. Ganot, “Israel’s Supreme Court Blocks Shin Bet Chief’s Firing, Urges Negotiations”, The Media Line, 9 aprile 2025.

[18] T. Zimuky, “AG counters no-confidence vote: Government aims to promote ‘loyalty to the political echelon’”, Ynetnews, 24 marzo 2025.

[19] “What will Israel’s bombshell court ruling that Haredi Jews must serve in the military mean for Netanyahu? Expert Q&A”, The Conversation, 27 giugno 2024.

[20] The Haredi Exemption”, The Israel Policy Forum, 25 giugno 2024.

[21] T. Goldenberg, “Israeli legislators pass budget in a move that shores up Netanyahu’s government”, Associate News Press, 25 marzo 2025.

 

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[22] Y. Shani e A. Cohen, “Israel’s Renewed Judicial Overhaul”, The Israeli Democracy Institute, 4 marzo 2025.

[23] D. Kushmaro, “Sker “olfan shishi”: rov hatzibur tomch behachzeret hachatofim tmoret siyum”, Channel 12, 28 marzo 2025. 

[24] T. Hermann, L. Yohanani, Y. Kaplan e I. Orly Sapozhnikova, “A Large Majority of Israelis Support Proceeding to the Second Stage of the Ceasefire Agreement”, The Israel Democracy Institute, 9 febbraio 2025.

[25] D. Danan, “As Netanyahu fires Shin Bet chief, right-wing Israelis are joining mass protests against him” The Jerusalem Post, 24 marzo 2025.

[26] “2025 Annual Threat Assessment of the U.S. Intelligence Community”, Office of the Director of National Intelligence, 25 marzo 2025.

[27] S. Granados, A. Boxerman e S. Varghese, “Israel Digs In Beyond Its Northern Border”, The New York Times, 31 marzo 2025.

[28] “Supervising ceasefire and disengagement agreement”, United Nations Peacekeeping, 10 aprile 2025.

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[29] C. Lister, “Israel Is Escalating Its War in Syria”, Foreign Policy, 27 marzo 2025.

[30] D. Shencker, Avoiding an Israel-Syria Showdown (Part 1): The Risks of “Occupation”The Washington Institute for Near East Policy, 20 marzo 2025.

[31] E. Fabian, ToI Staff e Agencies, “Katz: IDF will stay at 5 points in southern Lebanon regardless of border dispute talks”, The Times of Israel, 14 marzo 2025.

[32] R. Carroll, “Israel agree to border talks under US mediation: What to know”, Al-Monitor, 25 marzo 2025.

[33] Y.B. Menachem, Israel Redrawing Its Borders in Syria and Lebanon, Jerusalem Center for Security and Foreign Affairs (JCFA),4 marzo 2025.

[34] H. Ibish, “What Trump Is Really After in the Middle East”, The Atlantic, 27 febbraio 2025.

[35] Zvi Bar’el, “Israel Risks Being Sidelined in Trump’s Tangle of Interests as He Overhauls Global Politics”, Haaretz, 10 marzo 2025.

[36] Come accaduto più volte in passato, qualsiasi variazione territoriale di un certo peso in Cisgiordania ha un potenziale simbolico e politico molto ampio e in grado di travalicare i confini stessi di Israele e Palestina, tanto da produrre impatti diretti anche in Libano, Siria e Giordania.

[37] D. Pagliarulo, “The Jenin conundrum and the plight of the West Bank”, OSMED – Osservatorio sul Mediterraneo, 18 febbraio 2025.

[38] A. Mehvar, “Regional Overview Middle East March 2025. West Bank: Israel expands its military operations in the northern West Bank”, Acled Data, 7 marzo 2025.

[39] Ibidem.

[40] Storicamente Jenin è uno dei principali centri simbolici della resistenza palestinese sin dalla guerra arabo-israeliana del 1948-1949. La città ospita anche un importante campo profughi, tra i più grandi della Cisgiordania. Per maggiore dettagli, si veda: E. Kaplan, “Israel’s ‘Iron Wall’: A brief history of the ideology guiding Benjamin Netanyahu”, The Conversation, 25 marzo 2025.

[41] “Israel’s West Bank Incursions Highlight the Dilemmas of Palestinian Politics”, International Crisis Group, 4 marzo 2025.

[42] Nel caso emiratino, in particolare, tale posizione si esemplificherebbe con il sostegno a Mohammed Dahlan, ex leader di Fatah nella Striscia di Gaza e uomo di fiducia della famiglia regnante di Abu Dhabi al-Nahyan, al posto di Abu Mazen. Per maggiori dettagli, si veda: “The Cradle’s Palestine Correspondent, “Egypt’s Gaza Plan impeded by Arab pettiness”, The Cradle, 13 marzo 2025.

[43] “What is Egypt’s plan for the reconstruction of Gaza?”, Al Jazeera, 4 marzo 2025.

[44] R. Omar, “What does Egypt’s plan to rebuild Gaza involve and what challenges does it face?”, The Conversation, 10 marzo 2025.



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